Blaise Pascal, Pensieri S.
164; B. 233
164. Infinito,
nulla. La nostra anima vien gettata nel corpo, dove trova numero, tempo,
dimensioni. Essa vi ragiona sopra, e chiama tutto ciò natura, necessità, e non
può credere altro.
L'unità
aggiunta all'infinito non lo accresce menomamente, non piú che la misura di un
piede a una misura infinita. Dinanzi all'infinito, il finito si annichila e
diventa un puro nulla. Cosí il nostro spirito davanti a Dio e la nostra
giustizia davanti alla giustizia divina.
Tra la
nostra giustizia e quella di Dio non c'è una sproporzione cosí grande come tra
l'unità e l'infinito.
La
giustizia di Dio dev'essere immensa come la sua misericordia. Ora, la giustizia
verso i reprobi è meno immensa e deve urtarci meno della misericordia verso gli
eletti.
Noi
sappiamo che esiste un infinito, e ne ignoriamo la natura. Dacché sappiamo che
è falso che i numeri siano finiti, è vero che c'è un infinito numerico. Ma non
sappiamo che cosa è: è falso che sia pari, è falso che sia dispari, perché,
aggiungendovi l'unità, esso non cambia natura. Tuttavia, è un numero, e ogni
numero è pari o dispari (vero è che ciò s'intende di ogni numero finito).
Perciò si può benissimo conoscere che esiste un Dio senza sapere che cos'è.
Forse
che non c'è una verità sostanziale, dacché vediamo tante cose che non sono la
stessa verità?
Noi
conosciamo, dunque, l'esistenza e la natura del finito, perché siamo finiti ed
estesi come esso. Conosciamo l'esistenza dell'infinito e ne ignoriamo la
natura, perché ha estensione come noi, ma non limiti come noi. Ma non
conosciamo né l'esistenza né la natura di Dio, perché è privo sia di estensione
sia di limiti.
Tuttavia,
grazie alla fede ne conosciamo l'esistenza, nello stato di gloria ne
conosceremo la natura. Ora, ho già dimostrato che si può benissimo conoscere
l'esistenza di una cosa, senza conoscerne la natura.
Parliamo
adesso secondo i lumi naturali.
Se
c'è un Dio, è infinitamente incomprensibile, perché, non avendo né parti né
limiti, non ha nessun rapporto con noi. Siamo, dunque, incapaci di conoscere che
cos'è né se esista. Cosí stando le cose, chi oserà tentare di risolvere questo
problema? Non certo noi, che siamo incommensurabili con lui.
Chi
biasimerà allora i cristiani di non poter dar ragione della loro credenza, essi
che professano una religione di cui non possono dar ragione? Esponendola al
mondo, dichiarano che è una stoltezza, stultitiam; e voi vi
lamentate che non ne diano le prove! Se la provassero, mancherebbero di parola:
solo difettando di prove, non difettano di criterio.
“Sta
bene, ma, sebbene ciò serva a scusare coloro che la presentano come tale, e li
assolva dalla taccia di presentarla senza ragione, non scusa per coloro che la
accolgono”.
Esaminiamo
allora questo punto, e diciamo: “Dio esiste o no?” Ma da qual parte
inclineremo? La ragione qui non può determinare nulla: c'è di mezzo un caos infinito.
All'estremità di quella distanza infinita si gioca un giuoco in cui uscirà
testa o croce. Su quale delle due punterete? Secondo ragione, non potete
puntare né sull'una né sull'altra; e nemmeno escludere nessuna delle due. Non
accusate, dunque, di errore chi abbia scelto, perché non ne sapete un bel
nulla.
“No,
ma io li biasimo non già di aver compiuto quella scelta, ma di avere scelto;
perché, sebbene chi sceglie croce e chi sceglie testa incorrano nello stesso
errore, sono tutte e due in errore: l'unico partito giusto è di non scommettere
punto”.
Sí,
ma scommettere bisogna: non è una cosa che dipenda dal vostro volere, ci siete
impegnato. Che cosa sceglierete, dunque? Poiché scegliere bisogna, esaminiamo
quel che v'interessa meno. Avete due cose da perdere, il vero e il bene, e due
cose da impegnare nel giuoco: la vostra ragione e la vostra volontà, la vostra
conoscenza e la vostra beatitudine; e la vostra natura ha da fuggire due cose:
l'errore e l'infelicità. La vostra ragione non patisce maggior offesa da una
scelta piuttosto che dall'altra, dacché bisogna necessariamente scegliere. Ecco
un punto liquidato. Ma la vostra beatitudine? Pesiamo il guadagno e la perdita,
nel caso che scommettiate in favore dell'esistenza di Dio. Valutiamo questi due
casi: se vincete, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete,
dunque, senza esitare, che egli esiste.
“Ammirevole!
Sí, bisogna scommettere, ma forse rischio troppo”.
Vediamo.
Siccome c'è eguale probabilità di vincita e di perdita, se aveste da guadagnare
solamente due vite contro una, vi converrebbe già scommettere. Ma, se ce ne
fossero da guadagnare tre, dovreste giocare (poiché vi trovate nella necessità
di farlo); e, dacché siete obbligato a giocare, sareste imprudente a non
rischiare la vostra vita per guadagnarne tre in un giuoco nel quale c'è eguale
probabilità di vincere e di perdere. Ma qui c'è un'eternità di vita e di
beatitudine. Stando cosí le cose, quand'anche ci fosse un'infinità di casi, di
cui uno solo in vostro favore, avreste pure sempre ragione di scommettere uno
per avere due; e agireste senza criterio, se, essendo obbligato a giocare,
rifiutaste di arrischiare una vita contro tre in un giuoco in cui, su
un'infinità di probabilità, ce ne fosse per voi una sola, quando ci fosse da
guadagnare un'infinità di vita infinitamente beata. Ma qui c'è effettivamente
un'infinità di vita infinitamente beata da guadagnare, una probabilità di
vincita contro un numero finito di probabilità di perdita, e quel che rischiate
è qualcosa di finito. Questo tronca ogni incertezza: dovunque ci sia
l'infinito, e non ci sia un'infinità di probabilità di perdere contro quella di
vincere, non c'è da esitare: bisogna dar tutto. E cosí, quando si è obbligati a
giocare, bisogna rinunziare alla ragione per salvare la propria vita piuttosto
che rischiarla per il guadagno infinito, che è altrettanto pronto a venire
quanto la perdita del nulla.
Invero,
a nulla serve dire che è incerto se si vincerà, mentre è certo che si
arrischia; e che l'infinita distanza tra la certezza di quanto
si rischia e l'incertezza di quanto di potrà guadagnare eguaglia il
bene finito, che si rischia sicuramente, all'infinito, che è incerto. Non è
cosí: ogni giocatore arrischia in modo certo per un guadagno incerto; e
nondimeno rischia certamente il finito per un guadagno incerto del finito,
senza con ciò peccare contro la ragione. Non c'è una distanza infinita tra la
certezza di quanto si rischia e l'incertezza della vincita: ciò è falso. C'è,
per vero, una distanza infinita tra la certezza di guadagnare e la certezza di
perdere. Ma l'incertezza di vincere è sempre proporzionata alla certezza di
quanto si rischia, conforme alla proporzione delle probabilità di vincita e di
perdita. Di qui consegue che, quando ci siano eguali probabilità da una parte e
dall'altra, la partita si gioca alla pari, e la certezza di quanto si rischia è
eguale all'incertezza del guadagno: tutt'altro, quindi, che esserne
infinitamente distante! E, quando c'è da arrischiare il finito in un giuoco in
cui ci siano eguali probabilità di vincita e di perdita e ci sia da guadagnare
l'infinito, la nostra proposizione ha una validità infinita. Ciò è
dimostrativo; e, se gli uomini son capaci di qualche verità, questa ne è una.
“Lo
riconosco, lo ammetto. Ma non c'è mezzo di vedere il di sotto del giuoco?”.
Sí,
certamente, la Scrittura e il resto.
“Sta
bene. Ma io ho le mani legate, e la mia bocca è muta; sono forzato a scommettere,
e non sono libero; non mi si dà requie, e sono fatto in modo da non poter
credere. Che volete, dunque, che faccia?”
È
vero. Ma riconoscete almeno che la vostra impotenza di credere proviene dalle
vostre passioni, dacché la ragione vi ci porta, e tuttavia non potete credere.
Adoperatevi, dunque, a convincervi non già con l'aumento delle prove di Dio,
bensí mediante la diminuzione delle vostre passioni. Voi volete andare alla
fede, e non ne conoscete il cammino; volete guarire dall'incredulità, e ne
chiedete il rimedio: imparate da coloro che sono stati legati come voi e che
adesso scommettono tutto il loro bene: sono persone che conoscono il cammino
che vorreste seguire e che son guarite da un male di cui vorreste guarire.
Seguite il metodo con cui hanno cominciato: facendo cioè ogni cosa come se
credessero, prendendo l'acqua benedetta, facendo dire messe, ecc. In maniera
del tutto naturale, ciò vi farà credere e vi impecorirà.
“Ma
è proprio quel che temo”.
E
perché? che cosa avete da perdere? Ma, per dimostrarvi che ciò conduce alla
fede, sappiate che ciò diminuirà le vostre passioni, che sono i vostri grandi
ostacoli.
Fine
di questo discorso. Ora, qual male vi capiterà prendendo questo partito?
Sarete fedele, onesto, umile, riconoscente, benefico, amico sincero, veritiero.
A dir vero, non vivrete piú nei piaceri pestiferi, nella vanagloria, nelle
delizie; ma non avrete altri piaceri? Vi dico che in questa vita ci
guadagnerete; e che, a ogni nuovo passo che farete in questa via, scorgerete
tanta certezza di guadagno e tanto nulla in quanto rischiate, che alla fine vi
renderete conto di avere scommesso per una cosa certa, infinita, per la quale
non avete dato nulla.
“Oh!
codesto discorso mi conquista, mi esalta, eccetera”.
Se
questo discorso vi piace e vi sembra valido, sappiate che è fatto da un uomo
che si è messo in ginocchio prima e dopo, per pregare quell'Essere infinito e senza
parti, al quale sottomette tutto il suo essere, affinché si sottometta anche il
vostro, per il vostro bene e per la sua gloria, e che, quindi, la sua forza si
accorda con questa umiliazione.
LA SCOMMESSA
Dai Pensieri:
113. Non solo noi non conosciamo Dio se non per mezzo di Gesù Cristo, ma non conosciamo noi stessi se non per mezzo di Gesù Cristo; non conosciamo la vita, la morte se non per mezzo di Gesù Cristo. Senza Gesù Cristo, non sappiamo che cosa sia la nostra vita, la nostra morte, Dio, noi stessi. Pertanto, senza la Scrittura, che ha come unico oggetto Gesù Cristo, non conosciamo nulla e vediamo solamente oscurità e confusione nella natura di Dio come nella nostra.
114. Coloro che van fuori strada si perdono perché non vedono l’una o l’altra di queste due verità. Si può bensì conoscere Dio senza la propria miseria, e la propria miseria senza conoscere Dio; ma non si può conoscere Gesù Cristo senza conoscere a un tempo sia Dio sia la propria miseria.
Ecco perché non prenderò qui a dimostrare con prove naturali l’esistenza di Dio o la Trinità o l’immortalità dell’anima, né altre cose della stessa specie: non solo perché non mi sento abbastanza forte da trovare nella natura di che convincere atei induriti, ma anche perché senza Gesù Cristo tale conoscenza è inutile e sterile. Quand’uno fosse convinto che le proporzioni dei numeri sono verità immateriali, eterne, e dipendenti da una verità prima in cui sussistono, e che viene chiamata Dio, non mi parrebbe per questo molto progredito nel cammino della salute.
Il Dio dei Cristiani non è semplicemente un Dio autore delle verità matematiche e dell’ordine cosmico: come quello dei pagani e degli epicurei. Né è solamente un Dio il quale eserciti la sua provvidenza sulla vita e i beni degli uomini, per largire ai suoi fedeli una felice serie d’anni: conforme alla concezione degli Ebrei. Il Dio di Abramo, il Dio d’Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei cristiani, è un Dio di amore e di consolazione: un Dio che riempie l’anima e il cuore di coloro che possiede; un Dio che fa loro sentire interiormente la loro miseria e la propria misericordia infinita; che si unisce al più profondo della loro anima; che la colma di umiltà, di gioia, di fiducia, di amore, e che li rende incapaci di altro fine che non sia lui medesimo.
Tutti coloro che cercano Dio fuori di Gesù Cristo, e che si arrestano alla natura, o non trovano nessuna luce che li soddisfi o riescono a trovare un mezzo di conoscere e servire Dio senza mediatore; e così cadono o nell’ateismo o nel deismo: due cose che la religione cristiana aborre quasi in egual misura.
Senza Gesù Cristo, il mondo non sussisterebbe: sarebbe di necessità distrutto o sarebbe simile a un inferno.
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